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Luigi Pulci. Per ajutarti, com' era ragione;
Ma ritener non gli potemmo mai,
Tanto che forfe di noi ti dorrai.

Noi gli lafciammo preffo a una fonte,
Perchè pur quivi fi fermorno a bere;
Quivi legati appiè gli abbiam del monte,
E or di te venivamo a fapere,
Se rotta avevi al ferpente la fronte,
O da lui morto reftavi a giacere,
Diffe Rinaldo: pe' cavalli andiamo,
E tra noi fcufa, Ulivier, non facciamo.

Ritrovorno ciafcuno il corridore;
Dicea Rinaldo: or da toccar col dente
Non credo che fi truovi, infin che fore
Ufciam del bofco, o troviamo altre gente:
Cofi ftelli tu, Carlo Imperadore,
Che vuoi, ch'io vado pel mondo dolente;
Così fteffi tu, Gan, com'io fto ora,
Ma forfe peggio ftar ti farò ancora.

E così cavalcando con fofpetto,
Rinaldo fi dolea del fuo deftino;
E quel lione innanzi va foletto,
Sempre mostrando a coftoro il cammino:
E poi ch' egli hanno falito un poggetto,
Ebbon veduto un lume affai vicino;
Che in una grotta abitava un gigante,
E un gran fuoço s'avea fatto avante.

Una capanna di frafche avea fatto,
Ed appicato a una fua caviglia
Un cervio, e della pelle l'avea tratto;
Sente i caval calpeftare, e la briglia,
Subito prefe la caviglia il matto,
Come colui che poco fi configlia :
A Ulivieri, furiofo più ch' orfo,
Addoffo prefto la beftia fu corio,

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Ulivier vide quella mazza grossa,
E del gigante la mente fuperba
Volle fuggirlo; intanto una percofla
Giunfe nel petto sì forte, ed acerba,
Che bench' aveffi il Baron molta poffa,
Di Vegliantin fi trovava in full' erba.
Rinaldo quando Ulivier vide in terra,
Non domandar quanto dolor l'afferra.

E diffe: ribaldon, ghiotton da forche,
Che mille volte fo l'hai meritate;
Prima che fotto la luna fi corche,
Io ti meriterò di tal derrate.
Quefte beftion con fue parole porche, A
Diffe: a te non darò fe non gotate;
Che fe' tu tratto del cervio all' odore?
Tu debb' effere un ghiotto o furatore.

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Rinaldo, ch' avea poca pazienza,
Dette in ful vifo al gigante col guanto,
E fu quel pugno di tanta potenza,
Che tutto quanto il moftaccio gli ha infranto.
Dicendo: Iddio non ci are' fofferenza. T
Pure il gigante riavuto alquanto,
Arrandellò la caviglia a Rinaldo,
Che d'altro che di fol gli vuol dar caldo.

Rinaldo il colpo fchifè molto deftro,
E fe Bajardo faltar com' un gatto;
Combatter co' giganti era maeftro,
Sapeva appunto ogni lor colpo ed atto;
Parea il randello ufciffi d'un balestro:
Rinaldo menò il pugno un altro tratto,
E fu fi grande, quefto moftaccione,
Che morto cadde il gigante boccone.

E poco meno e' non fè, com'e' fuole
Il drago, quando uccide illeofante,
Che non s'avvede, tanto è fciocco e fole,
Che nel cader quel animal pelante
L'uccide, che gli è fotto, onde e' fi duole;
AT.

25

Così

Luigi Pulci

Luigi Dulci., Così Rinaldo a quefto fu ignorante,
Che quando cadde il gigante gagliardo,
Ifchiacciò quafi Rinaldo, e Bajarde.

E con fatica gli ufcì poi di fotto,
F bifognò che Dodon l'ajutaffi;
Diffe Rinaldo: io non penfai di botto
Così il gigante in terra rovinaffi,
Ond' io n' ho quafi pagato lo icotto;
E' diffe ch' all' odor d'un cervio trafli,
Alla fua capanetta andiamo un poco,
Dove fi vede colaffù quel fuoco.

Allor tutti fmontaron dell' arcione,
Alla capanna furono avviati,
Vidono il cervio; diceva Dodone:
Forfe che mal non farem capitati;
Fece d'un certo ramo uno fchidone,
Rinaldo intanto tre pani ha trovati,
E pien di ftrana cervogia un barlotto,
E diffe: Il cervio mi fa di biscotto.

Erano i pan com' un fondo di tino,
Tanto ch' a dirlo pur mi raccapriccio:
Diffe Rinaldo fe c'è'l pane e'l vino,
Ch' afpettiam noi, Dodon? qui fa d'arficcio.
Dice a Dodone: afpetta un tal pochino,
Tanto che lievi la crofta fu'l riccio,
Diffe Rinaldo: più non l'arroftiano,
Che'l cervio molto cotto è poco fano.

Diffe Dodone: i' t'ho intefo, Rinaldo,
Il gorgozzul ti debbe pizzicare;
Se non è cotto, e' basta che fia caldo,
E cominciorno del cervio a fípiccare:
Rinaldo fel mangiava intero, e faldo,
Se non che la vergogna il fa restare;
E de' tre pan fece paura a uno,
Che col barlotto non beve a digiuno.

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Poi che fu l'alba in Levante apparita,
Si dipartiron da quella capanna;
Dicea Dodon quefta fu buona gita,
Poi che dal ciel fopravenne la manna,
E quel gigante ha perduta la vita:
Vedi che pure ingannato è chi 'nganna,
Quel bacalare, Ulivier, ti percoffe
A tradimento, or fi fta per le foffe.

Luigi Pulci

Bojardo.

· Bojardo.

Bojard o.

Matteo Maria Bojardo, Graf von Scandiano, aus Reggio in der Lombardei, geft. 1494, unterschied sich in feinem Zeitalter durch viele gelehrte Kenntnisse, besonders in der klassischen Literatur, und lieferte eine Ueberseßung des Herodot und Apulejus. Als Dichter ist er durch seinen Orlando Inamorato bekanut, worin er die Vereinigung des romantischen Stofs mit der ernsthaften epischen Manier der Alten, nicht gar glücklich, versuchte. Er vollendete nur drei Bücher, jedes in mehrern Gesängen, die weder von Seiten der Erfindung, noch des Vortrages, sich sonderlich auszeichnen; icolo degli Agostini that noch drei andre Gesänge, von nicht größerm Werthe, hinzu. Im folgenden Jahrhunderte lieferte Francesco Berni eine Umarbeitung dieses Gedichts, worin er das ganze Kolorit desselben verånderte, und dem Stoffe sowohl als der Einkleidung einen durchaus burlesken Ton gab, der aber, bei allem Wişe, zu viel Freiheit und Unfittlichkeit hat. Bojardo's größtes Verdienst bleibt immer, daß er den Ariost zur Wahl seines epis schen Stofs veranlasste, obgleich ihn dieser Dichter in jedem Betracht unendlich übertraf.

ORLANDO INAMORATO, L. I.
Canto VIII.

GIUNSE

IUNSE Rinaldo à quel vago Giardino,
Ch' era per nome chiamato Gioiofo,
Stracco gli ha il cafo, l'anima: e'l camino
Il corpo; ond' ha bifogno di riposo.
Il legno al lito fatto già vicino
Smontar lo fa fopra un bel prato erbofo
Di mille fior veftito, vago, e adorno,
E ben quindeci miglia volge intorno.

Verfo ponente, à punto fopra'l lito
Un ricco, e bel Palagio fi moftrava,
Fatto d'un marmo fi terfo, e pulito,

Che

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